sabato 30 agosto 2008

The last show - Primo Sguardo

Comincio questo viaggio nei racconti, pubblicando un racconto a puntate (6 per l'esattezza) già pubblicato su Cinem'art, rivista di cinema per la quale mi fregio di scrivere.

Dalla finestra della mia nuova casa si vedono molte cose. A volte bellissime, a volte orrende. Più spesso così piatte da sfiorire via senza lasciare traccia.

La mia nuova casa non è ortodossa: poco luminosa, con un enorme salone, molte sedie e una gigantesca finestra rettangolare. L’ultima cosa che le è passata davanti è una bandiera americana capovolta, la issava Tommy Lee Jones chiedendo aiuto al mondo.

Anche noi dovremmo chiedere aiuto, ma sembra che nessuno sia più in grado, fisicamente e moralmente, di far partire la richiesta, di far uscire la voce, di mostrare agli altri che il nostro tricolore, più che capovolto, è sepolto. E chi l’ha sepolto è chi dovrebbe aiutarci. Circolo vizioso.

Ho cambiato casa perché il vicinato era diventato poco socievole, abulico, opaco, lo sguardo dominato da pupille bianche che non riuscivano a guardare. E a parlare, se non di gente su troni che litiga per 15 minuti di disgustosa notorietà. Disgustosa, ma redditizia: la nuova frontiera del posto fisso, che devasta le ambizioni ma garantisce la pensione, è al di là della tv, dove la fiction è diventata spettacolo della realtà. A cui non crede più nessuno, ma su cui non si può far a meno di spendere parole.

Ed è così noiosa, questa realtà, che mi sono già stancato di denigrarla, preferisco guardare dalla finestra: mi saluta un russo alto, tatuatissimo, somigliante a Viggo Mortensen, seduto al tavolo dove la sua ascesa a capo l’ha condotto alla solitudine, dove la scoperta delle sue emozioni e delle sue vere radici gli ha fatto perdere i sogni. Non è Dio a esser morto. Sono i sogni.

La morte del sogno mi ha costretto a cambiare casa. Ho dovuto fare di necessità virtù: questo in cui mi trovo è l’unico rifugio possibile, l’unico posto apparentemente sicuro, necessario luogo per provare a cercare ciò che resta del mondo. I nuovi Monarchi d’Italia hanno cominciato la loro marcia, ma hanno capito la lezione: Roma, a differenza di 80 anni fa, è già avamposto del nuovo regno. Bisogna marciare nelle teste, fino a spegnerle. La rivoluzione non è più eversiva, è ottundente, è fatta di computer grafica e non di lotte, di suonerie polifoniche e non di canti.

Se faccio retorica nostalgica e passatista, io che ho sempre amato il futuro e i bicchieri mezzi pieni, vuol dire che i Monarchi si stanno avvicinando. E che devo rifugiarmi.

Poco prima di entrare qua dentro, uno dei Sudditi fuori mi ha fatto notare, con un cenno di disgusto, che la casa sembrava un cinema. Gli ho risposto che lo era. Sì, gli ho rivolto parola e non avrei dovuto farlo, ma l’orgoglio è stato più forte della paura del contagio. Ho scelto un cinema, e non potevo scegliere altro posto per cercare di ossigenare il cervello. Non è detto che ci riesca: qualche Vassallo dei Monarchi è nascosto anche qua. Lo riconosco dal fatto che va continuamente in vacanza: alle Bahamas, a fare calendari, a festeggiare notti prima di esami per i quali ormai non c’è bisogno di studiare. Oppure, a Ponte Milvio, assieme alla gioventù contemporanea.

Hanno provato qualche volta ad affacciarsi alla finestra e di solito li respingo, li caccio via tirandogli un libro, chiudendo gli occhi e non ridendo; ma un paio di volte sono riusciti a coinvolgermi, a farsi guardare e salutare. É la curiosità che rende tutto difficile. Voglio provare a capirli, i Sudditi, il modo in cui hanno optato per l’assuefazione e la libertà di spegnersi anziché la critica. Che è ciò che ho provato a fare per una vita, tanto da renderlo un lavoro, precario come altri mai.

Sono un critico cinematografico: i Sudditi ridono. In realtà ridevano già prima di esser Sudditi. E rido anch’io certe volte, quando penso al mio lavoro. Aspetto che in finestra passi l’infantile ricordo che mi ha fatto intraprendere questa via più autodistruttiva che appagante: Indiana Jones e l’ultima crociata, un volo in aereo con Connery e Ford, un colpo di pistola che guarisce, irrorato dalle acque del Sacro Graal. E quell’acqua santa, che il mio scetticismo non gradisce più di un bicchiere di minerale, adesso non sembra una cattiva soluzione. Avere fede, credere in qualcosa. Sarebbe l’ideale, ma la razionalità ha la meglio. E penso che non posso avere fede in qualcosa che fuori dalla porta sta cercando di annientarmi.

Ero seduto davanti allo schermo del mio computer, a scrivere un articolo sulla Festa del Cinema: l’ultimo guizzo di una civiltà. Mi giro intorno e mi accorgo che i Monarchi hanno già compiuto la loro opera: hanno preso mia madre, prona al volere di un emissario donna, bionda, erre flebile e voce baritonale; hanno preso mio padre, circondato dalle miniaturizzate mura finte di un plastico morboso; hanno preso mio fratello, che ha trovato la sua assurda serenità in una voce che deturpa i Deep Purple e assalta le sinapsi a suon di sensazionalismo. Ho voglia di piangere. Respirare. Pensare. Faccio il disperato tentativo di uscire dal pianerottolo e bussare ai vicini di casa: ridevano a tempo e comando, su due tizi che parlavano di merda e fica.

Eppure il segnale che la mia migliore amica mi aveva lanciato era chiaro: aveva ricominciato a riacquistare la vista fuggita da Roma verso Parigi. La gente pensa e s’incazza, a ogni angolo c’è un cinema in cui gli attori parlano la loro lingua e la tv mette in mostra la Bellezza. Muoiono, piangono, rubano e calpestano anche lì. Ma c’è una dignità che abbiamo dimenticato. Mi chiudo in camera, piango, mi aggrappo disperatamente al ricordo di Into the wild .

Molti dei pochi che hanno cercato di resistere mi dicevano che la causa di tutto era in tv, o meglio era la tv. Pochi giorni dopo anche loro erano Sudditi. Creare bersagli tanto evidenti e fasulli da confondere le menti, allevare capri espiatori per mascherare le colpe, far rientrare il dissenso nei meccanismi del sistema: le armi dei Monarchi sono quelle del Diavolo, rendersi invisibile. E come il Diavolo, il Monarca si nasconde nei dettagli. La televisione è solo una fabbrica di Vassalli, piccoli e stupidi emissari che hanno di fronte menti più piccole e stupide delle loro. Aperte le menti, uccisi i Vassalli: e in tv si può trovare ristoro.

Non sono poche le volte in cui restringo i lati della finestra per godermi una vista in 4:3: viaggiare. Sopra un’isola del Pacifico, una ventina di persone che ancora lottano, riflettono, si dannano e soffrono per scoprire la verità, per poter tornare a casa. Anche loro sono circondati dagli Altri. Ma gli altri non siamo noi, e voglio affermarlo chiaramente. Io non sono come gli altri, sono migliore delle amebe che regnano su persone in standby. Penso e dico cose giuste, e sono uno splendido 26enne. Che vuole tornare a casa, assieme a quei pochi che sono nelle mie condizioni. Che vuole liberarsi.

Come l’ematologo di Miami, che affonda i suoi coltelli nella carne di chi ama il marcio, sguazza nel male, che gioca coi suoi fantasmi cercando di liberarsene, ma godendone: la rivalsa, il violento sfogo di frustrazioni accumulate, può essere sana. Picchiare i Sudditi, strappare i loro occhi bianchi sperando in un risveglio o semplicemente sentire il loro dolore scorrere sulle mani, come Michael Myers, un grumo di disperata furia che distrugge i propri confini.

Ma soprattutto voglio tornare a casa. Devo. Mi servono rifornimenti, ricambi, palliativi del sentirsi vivi. Sto per uscire dalla porta: sono là, sul fondo della strada, camminano verso di me. Appena tornati dall’ultima crociera, satolli di risate senza neuroni, mogli bellissime e giovani generazioni fianco a fianco. Non vogliono arrendersi alla mia ribellione.

giovedì 14 agosto 2008

Aloha...

Sarò breve.
E avrei finito.
In realtà sarò davvero breve.
E ho finito già da dieci minuti.
Ma per ciò che devo dirvi 10 minuti sono come andare al supermercato per comprare solo una fetta di prosciutto.
Inutile.
Qui scriverò.
Racconti e affini, perlopipù. Soprattutto affini.
Peggio per voi...